Agli inizi di febbraio 1944, nell’ottica della strategia del ‘salto della rana’, truppe americane sbarcarono in forze sulle isole-chiave di Kwajalein, il più grande atollo mondiale, con 60 miglia di lunghezza e 20 miglia di larghezza della laguna interna, composto da un centinaio di isole ed isolotti, più o meno al centro delle isole Marshall. Per assicurare il controllo della laguna, l’attacco fu condotto con due azioni sferrate contemporanemante, quella più a nord investi’ Roi e Namur. Si temeva una seconda Tarawa, ma i difensori (circa 2.345 uomini, in gran parte avieri del 24°Gruppo aereo e per il resto soldati del 61° Reparto difesa costiera) non furono in grado ci combinare granchè. Dopo una breve pausa per la riorganizzazione, gli americani ripresero ad avanzare più lentamente ma costantemente. I combattimenti della prima giornata erano stati brevi azioni isolate, di reparti giapponesi senza contatti col loro comando, ad ogni buon conto, in appoggio alle unità dei Marines, presero terra pure i carri delle specifiche unità organizzate dal Corpo. La zona vide l’uso del carro leggero M5A1 Stuart, anche se ormai la maggior parte dei battaglioni corazzati dei Marines aveva gli Sherman. A supporto del 23° Reggimento Marines, oltre a 10 Sherman anche 3 Stuart della Compagnia A del 4° presero terra, attraversando l’aeroporto centrale dell’isola di Roi, entro sera quasi tutti i difensori erano stati eliminati e dopo furono necessari solo due giorni per azioni di rastrellamento.
In quanto a Namur, coperta da una densa boscaglia, con molti depositi e casematte, era un obiettivo più ‘tosto’. I bombardamenti l’avevano resa un intrico di detriti e rovine, un riparo idale per i difensori. Al calar delle tenebre, tre quarti dell’isola erano conquistati e dopo alcuni deboli contrattacchi notturni giapponesi l’avanzata riprese il 2 febbraio. Al 24° Marines fu d’aiuto una decina di M5A1 della Compagnia B, arrivati da Roi grazie ad una strada rialzata tra le due isole. Alcuni di essi s’insabbiarono e tanto per cambiare vennero attaccati fanaticamente dalla fanteria giapponese, che arrivò a salirvi sopra. Nel complesso la presa delle isole, facilitata di molto dalla presenza di carri armati, il cui fuoco incessante era necessario ad eliminare i ben nascosti bunkers di tronchi avversari, durò tre giorni, durante i quali spesso gli equipaggi non dormirono, mangiando solo qualche razione K e bevendo acqua non certo fresca, non potendo neanche curarsi dei mezzi. La guarnigione giapponese fu in pratica eliminata – scamparono solo 300 feriti, ma la battaglia, senza i carri dei marines, sarebbe costata di più. Tra i carri persi, quello del capitano Denig, il comandante della Compagnia B del 4°, colpito da un controcarro giapponese all’altezza del ruotino centrale sinistro. Il 4° era uno dei Battaglioni carri assegnati in ragione di uno per ogni Divisione di Marines, con l’organico variabile nel numero e nei mezzi – da 54 a 67 carri leggeri poi sostituiti dal novembre 1943 da 46 carri medi M4A2 Sherman affiancati da carri leggeri lanciafiamme, entrambi molto efficaci contro bunkers e fortificazioni nemiche. Questo famosissimo corpo aveva cominciato a familiarizzare coi corazzati molto prima, ma solo attorno al 1942 vari distaccamenti da sbarco ebbero in appoggio pochi carri leggeri. Per tutto il ciclo operativo, il terreno in genere non diede certo spazio per ampie manovre e le circostanze restrinsero l’uso operativo dei corazzati al logorante supporto alle fanterie.

L’uniforme
Il caldo tropicale aveva portato ad una certa semplificazione sul vestiario come nel caso che presentiamo. Le tute monopezzo si erano rivelate per nulla pratiche in circostanze ove regnava la dissenteria endemica, era più frequente l’uso di t-shirts assieme ai pantaloni in cotone spigato della tenuta da fatica (Particolare 1 della Tavola), pantaloni che a quanto pare dalle foto erano sempre di una taglia ‘lunga’, e perciò con l’orlo ripiegato o col bordo sfilacciato dopo il taglio ad hoc. Anche sul retro dei pantaloni (2) c’era il particolare sistema d’identificazione visiva del grado, abbastanza usato nei ranghi della 4 a Divisione marines. Si trattava di un semicerchio contenente un numero a
tre cifre (ne conosco solo due esempi, 133 e 135) e sormontato da un numero , per esempio il 4 che corrispondeva ad un tenente, il tutto in nero; il sistema permetteva una veloce identificazione a distanza senza essere troppo appariscente. Gli scarponcini dapprima furono portati con le ghette infilate sotto ai pantaloni ma ben presto esse furono abolite. Anche l’equipaggiamento individuale era ridotto al minimo, con il tipico, largo cinturone, in canapa (3) con fibbia metallo brunito modello 36, pacchetto medicazione rettangolare M1910 (4 – è il tipo color olive drab chiaro dei primi anni di guerra), agganciato in orizzontale al cinturone a destra, gibernetta da pistola M1923 (5 – è l’ultimo tipo color olive drab scuro) a sinistra, e borraccia posteriore. In (6) è presentata la gibernetta da pistola M1918 color olive drab chiaro, con agganciata sotto la ‘first aid pouch’ (7) di ultimo tipo, color olive drab scuro. La borraccia M1910 (8) era portata in una custodia di canapa chiusa da due patte allacciate con due bottoni a pressione – a destra od a sinistra, il tappo dal 1944 non era più in alluminio ma cominciò ad essere in materiale plastico nero. L’ onnipresente Colt M1911A1 era portata sul fianco destro (9), quest’ultima era portata al fianco destro, nella fondina in cuoio rossiccio M1 dalla tipica forma, oppure nella pratica fondina ascellare M7 (10) sempre in cuoio marrone rossiccio. Il casco da carrista era ormai sostituito dall’elmetto d’acciaio, che riparava di più dalle cordiali attenzioni dei cecchini giapponesi. Su di esso, era portato od un fregio verniciato in nero non (11) regolamentare o il distintivo di grado.

Il figurino
Pezzi insoliti di questi tempi ce ne sono veramente pochi ed ogni tanto, con un po’ di fantasia, si può e si deve tentare qualcosa di piu’. Ingredienti uno scampolo di giornata libera e la voglia di rovistare tra i tanti pezzi sfusi o surplus, tenuti da parte proprio in attesa dell’idea giusta. In pratica, mi sono trovato un mezzo busto americano in t-shirt, con una posa a riposo – il tizio si sta sgranocchiando un pezzo di cioccolato. Per il passo in più, per prima cosa c’è da sostituire la testa, decisamente bruttina, tagliandola via.
Si potrebbe sunteggiare la descrizione di come è stato ottenuto il figurino col titolo ‘tre figurini in uno’, in effetti è stato un tentativo di autocostruzione parziale, un vero divertimento mentre si scelgono i pezzi di partenza, frugando nella ‘banca’ alla ricerca di qualcosa che poi si unisse plausibilmente col primo abbozzo. Dal primo aspetto degno di Frankestein, si arriva ad avere sottomano tutti gli elementi più compatibili con l’idea che ci si forma in mente. In pratica, i pantaloni sono quelli di un vecchio figurino Verlinden – il n. 206 ‘Us Artillery crewman Vientam n,. 1’, tagliato con un seghetto da traforo, privati delle tasche laterali e raccordati col cutter per renderne più accettabili le proporzioni. Il busto è quello di uno dei tre figurini della confezione Warrior n. 35270 ‘USMC Tank Crew WW II’, completato con braccia e testa provenienti dalla banca dei pezzi. La maggior parte del lavoro ha riguardato tagliare alcune parti per dare coerenza al nuovo figurino, tuttavia, solo da più di una prova a secco si può capire bene come apparirà il figurino, se proporzionato o meno, allo scopo c’è da rifare la cinta degli stessi. Con un trapanino si fanno due fori nelle due parti da unire, con una punta di 2 mm di diametro e circa 3 mm di profondità. Forniamoci di un perno in acciaio e con l’aiuto del cianoacrilato uniremo le due parti, dopo circa un’ora si può ricominciare a lavorare, ricavando la cinta dei pantaloni. E’ un lavoro lungo e che necessita di precisione, ci vengono in aiuto le fresette per avere l’effetto della maglietta dentro ai pantaloni. Poi si rifanno le tasche interne sui lati e, con l’aiuto di pezzetti di lamierino i passanti della cinghia dei pantaloni.
Passo ad incollare le braccia e la testa, tratta dallo scomparto delle teste di varia provenienza, senza elmetto, che mi diverto a mettere tutte assieme in modo da non assegnare mai lo stesso tipo di testa allo stesso tipo di uniforme; si fora il collo del pezzo Warrior, inserendo un pernettino con
l’aiuto di una punta da trapano da 0.60 mm. Con un po’ di cianoacrilato la testa va a posto, nonostante tutta la cura, è possibile si noti ancora un piccolo gap fra collo e maglietta, ma basta simulare con dello stucco un fazzoletto legato al collo. Levando i capelli in eccesso dalla testa, non resta che appioppare al figurino un nuovo elmetto americano, è un Italeri vecchio ma ancora accettabile, tant’è vero che basta un’ultima fresatura dall’interno e calzerà realisticamente. Dopo una lavatura con trielina o prodotto similare, stendiamo il primer, per esso ognuno ha una sua ricetta (chi preferisce il bianco, chi il grigio) – personalmente stendiamo del normale grigio – né troppo chiaro né troppo scuro – a pennello, e sinora non abbiamo mai avuto troppi problemi.
Stavolta la cromaticità del figurino non è per niente appariscente, trattandosi più che altro di toni di verde. Anzitutto i pantaloni, che erano riscontrabili sin in verde scuro, se nuovi, o grigioverde chiaro che scoloriva in un marrone giallastro chiaro, se usurati. In pratica si può usare, per i nuovi, una miscela di colori a smalto nero – 3 parti – giallo e rosso – 1 parte ciascuno, ombre realizzate con colori ad olio Nero e Terra d’Ombra e luci Bianco Titanio. La t-shirt è anch’essa quasi nuova, perciò in verde ‘forest green’, l’eventuale buffetteria in canapa, andava dal marrone giallastro molto chiaro al grigioverde scuro – questo più tardi. La semplice sbiaditura degli indumenti è riproducibile abbassando i toni dei colori di base, viceversa se bagnati dovrebbero essere scuriti. La cinghia dei pantaloni in cuoio naturale, mentre la fondina va più rossastra, l’elmetto è dipinto in Humbrol 66, ombreggiato una volta asciutto con del verde e del nero ad acquerello, molto indicato per questo genere dei lavori. Passando al viso, è importante arrivare ad un giusto tono d’incarnato, sbagliare di troppo la prima mano di base significa faticare molto dopo. E’ sufficiente partire da un marrone ‘caldo’ giallastro miscelato all’ocra chiaro, da sfumare gradualmente e da schiarire a più riprese. A volte già solo con le ombre attorno agli occhi, naso e guance saremo in grado di determinare carattere ed espressione. Per la pelle nuda delle braccia, la pittura richiede un trattamento molto sottile e senza grandi contrasti, il passaggio tra luce ed ombra dev’essere molto graduale, occorreranno molti trattamenti di luce, ma poco diversi fra loro.

La basetta
Volendo – anzi dovendo – spingermi sul tropicale, mi sono venute in aiuto delle foglie di piante sintetiche, grazie alla cortesia del fioraio di fiducia che non manca mai di passarmi resti di foglie cadute od incidentate. Se ne possono cosi’ reperire di varie forme, basta poi lavorarci attorno un po’ per restare nel realismo dovuto alla scala. Per il terreno fisso un foglietto di polistirolo per dare un minimo di stacco rispetto al suo piano, sul polistirolo si comincia a stendere una mano di Das, raccordandola coi bordi della basetta e contemporaneamente aggiungendo sassolini e sabbia per simulare l’aspetto del terreno. Mentre questo si asciuga, taglio dei pezzi di foglie sintetiche, dando loro una forma lanceolata, poi immergo i pezzetti in una miscela ad acquerello verde per poi pescarle con una pinzetta e stenderle ad asciugare su di un vecchio pezzo di compensato, direttamente sul termosifone. Una volta completamente asciutte le inserisco nel terreno, forandolo dove andranno posizionate, bisogna naturalmente intridere di colla vinilica la parte da inserire. Per l’inserimento, basta forzare un po’ ma non troppo, avendo cura di dare una certa inclinazione e tenendo i pezzetti più alti verso il centro.
Il tinta di base per il terreno è una miscela di colori ad olio – marrone e blu di Prussica – che copre la superficie, mescolato ulteriormente con oliva scuro in alcuni punti e – sempre a fresco – con marrone chiaro in altri, cosi’ l’aspetto non sarà troppo uniforme. Il marrone con il blu si scurisce senza ‘sporcarsi’, come succederebbe usando il nero. Una passata sui punti più in evidenza con una miscela di bianco sporco e giallo ocra concluderà il lavoro.
Un saluto da Verona e..buon modellismo !

Bibliografia
1 – The Us Army 1941-45 (Revised Edition)
Osprey Men at Arms 70 – Osprey Publishing (London) 1984
2 – Us Marines in World War Two – Uniforms Illustrated n. 11 –
Arms and Armour Press (London) – 1985
3 – Us Marine Tanks in World War Two – Tanks Illustrated n. 29 –
Arms and Armour Press (London) – 1988
4 – Us Army Combat Equipments 1910-1988 –
Osprey Men at Arms 205 – Osprey Publishing (London) 1989